Intervista a Markus Poschner – Luca Segalla (»MUSICA«)

Markus Poschner, quarantaquattro anni, di Monaco di Baviera. Da settembre è il nuovo direttore principale dell’Orchestra della Svizzera italiana, a Lugano. E da settembre la Città ha un nuovo auditorium multifunzionale da quasi mille posti, all’interno del LAC, l’avveniristico polo culturale sulle rive del lago progettato dall’architetto Ivano Gianola. Al LAC ci sono tutte le premesse per far interagire il teatro di prosa, la musica e le arti visive, con un museo permanente e degli spazi per le esposizioni temporanee. Se l’auditorium ricorda il KKL di Lucerna, le sue dimensioni relativamente ridotte gli conferiscono un’aria più accogliente e familiare. Sono simili però le forme, la presenza di ampie vetrate a sottolineare la continuità tra spazio esterno — dominato in entrambi i casi dall’acqua — e spazio interno, il senso di libertà che si respira non appena entrati nel grande atrio.
Abbiamo incontrato Markus Poschner al LAC all’inizio di settembre, mentre fervevano gli ultimi lavori di sistemazione, a pochi giorni dall’inaugurazione ufficiale del complesso.

– Parliamo della sua nuova doppia avventura, il podio dell’OSI, l’Orchestra della Svizzera Italiana, e l’attività al LAC, dove l’OSI è l’orchestra residente –
Devo dire che sono molto felice e molto orgoglioso di guidare questa meravigliosa orchestra. È un’orchestra molto flessibile, in grado di affrontare un vasto repertorio, da quello antico e dal Barocco al repertorio classico e romantico fino alla musica della scuola viennese ed alla musica contemporanea. E poi questa meravigliosa sala da concerto è un dono, non solo per me come direttore, ma anche per la città di Lugano.

– Ho appena visitato la sala: l’impressione è che abbia una buona acustica… –
L’abbiamo testata il mese scorso ed è davvero un’ottima acustica. Ed oltre all’acustica c’è un’ottima atmosfera, perché è una sala dalle dimensioni giuste, non troppo stretta né troppo grande, una sala perfetta per l’orchestra.

– Anche per l’opera… –
Naturalmente, basta cambiare il setting del palcoscenico.

– Penso che sia il sogno di ogni direttore avere una nuova orchestra e insieme una nuova sala da concerto… –
Certo. Adesso tocca a me fare il lavoro! Lavorare duramente.

– Il primo compito che vi attende è il progetto «Rileggendo Brahms». Vuole illustrarlo? –
È un progetto sulle sinfonie ed i concerti brahmsiani e per me si tratta di una grande sfida. Brahms è un caposaldo del repertorio in tutto il mondo, ma viene suonato prevalentemente da orchestre con grandi organici e con un approccio… direi molto wagneriano. C’è invece anche un lato viennese nella sua musica: non dobbiamo dimenticare che Brahms è profondamente legato all’eredità del Classicismo e che come compositore nasce da Schumann, Beethoven, Schubert e, risalendo ancora più indietro, da Mozart e da Haydn. Non conosco altri compositori così consapevoli del passato musicale come lo era lui. Aveva studiato la musica antica, Couperin, Händel, Haydn, era un vero e proprio musicologo, un intellettuale e d’altro canto come compositore era un rivoluzionario.

– Schönberg, infatti, ha parlato di un «Brahms progressivo»… –
Assolutamente. È il compositore più progressivo della sua epoca, il compositore che apre l’universo musicale del XX secolo. Questo è il motivo per cui sono così affascinato da lui, perché non si ha mai l’impressione di una musica pensata o costruita: al contrario nelle sue opere ci sono un’enorme profondità, un’enorme carica emotiva. Se invece si analizzano la struttura, la forma, l’armonia ed il ritmo, è incredibile scoprire come ogni aspetto sia collegato a tutto il resto. C’è in Brahms l’idea di costruire un’intera sinfonia a partire da un piccolo dettaglio, un frammento tematico mimino, un atomo di musica.

– Come nella Quarta sinfonia, il cui primo movimento è costruito tutto sull’intervallo di terza… –
Oppure nella Seconda sinfonia, con quelle quattro note iniziali che da sole aprono le porte di un intero universo di musica. Dietro c’è la riflessione intellettuale di Beethoven, ci sono quattrocento anni di storia della musica, c’è naturalmente Bach (basti pensare alla passacaglia nell’ultimo movimento della Quarta sinfonia): in Brahms troviamo contrappunto ovunque ed insieme una nuova sensibilità per l’orchestrazione, perché tutto nei suoi lavori è sempre molto chiaro. Ecco, noi vogliamo far emergere questo lato cameristico della musica di Brahms, questa purezza.

– Ho letto che partirete dalle annotazioni sulle sinfonie brahmsiane, pubblicate nel 1933, di Walter Blume, che era stato allievo di Fritz Steinbach, un direttore molto vicino a Brahms. Perché nessuno le ha mai prese in considerazione prima d’ora? –
È davvero difficile rispondere. Il motivo è probabilmente legato all’idea che ci si è fatti della tradizione e della cosiddetta scuola romantica austro-tedesca. C’è stata una profonda frattura con la Seconda Guerra Mondiale, perché i più grandi direttori, a mio avviso Fritz Busch, Weingartner ed Erich Kleiber, che erano gli autentici rappresentanti della vera tradizione tedesca, dovettero andare in esilio. Così oggi tendiamo ad identificare erroneamente la tradizione tedesca con Furtwängler e soprattutto con von Karajan, che invece era un direttore più empatico, il cui pathos era legato alla tradizione wagneriana. Al contrario Brahms è un compositore molto classico, che non ha bisogno di tutta questa libertà interpretativa, di tutto questo pathos sentimentale. Per questo credo sia importante poter risalire all’approccio interpretativo di Fritz Steinbach, che era molto amico di Brahms e soprattutto guidava l’Orchestra di Meiningen, una delle orchestre più famose nell’Europa dell’epoca. Meiningen era solo una piccola cittadina della Turingia, ma aveva investito molto in un’orchestra che tra i direttori principali aveva avuto, per esempio, anche Hans von Bülow, il quale la portò ad un livello molto altro, ed in seguito, per sei mesi, Richard Strauss.

– Qualcuno ha scritto che la tradizione non è altro che l’insieme delle cattive abitudini interpretative accumulatesi nel tempo… –
E proprio così. Noi vogliamo cercare un nuovo approccio alla musica di Brahms, senza il pathos tedesco, puntando piuttosto ad una purezza e ad una freschezza che sono molto italiane.

– Mi ha appena parlato di Erich Kleiber. E Carlos Kleiber? Il suo Brahms è magnifico… In quale tradizione lo possiamo collocare? –
Alla tradizione autentica di cui ho appena parlato. Carlos Kleiber era un genio ed era profondamente legato all’autentica tradizione viennese. Lo capiamo bene ascoltando il suo Beethoven, il suo Schubert (soprattutto l’«Incompiuta») e naturalmente le sinfonie di Brahms. È incredibile la sua attenzione per il testo: Brahms non faceva errori di scrittura, perché era molto accurato, e così Kleiber ha corretto alcuni errori di stampa delle partiture facendo riferimento agli arrangiamenti delle quattro sinfonie per pianoforte a due e a quattro mani, curati dallo stesso Brahms. Ha studiato a fondo le annotazioni dei direttori sulle vecchie partiture, le vecchie edizioni a stampa, ogni dettaglio delle arcate. Voleva conoscere ogni cosa su Brahms. Per questo le sue registrazioni delle quattro sinfonie sono così belle. Il suo, però, resta un Brahms sinfonico, affrontato con organici molto ampi; noi vogliamo invece provare a fare un Brahms cameristico, con un organico ridotto, più legato alla tradizione di Bach, Haydn e Beethoven. La OSI ha dieci violini primi, che per puro caso sono esattamente lo stesso numero dei violini primi dell’orchestra di Meiningen! E nell’orchestra di Meiningen suonavano alcuni dei musicisti più apprezzati da Brahms, come il clarinettista Richard Mühlfeld, che ai tempi faceva addirittura il vibrato! Sappiamo che Brahms amava i solisti e le orchestre che erano in grado di fraseggiare bene. Il fraseggio è tutto, anche nella musica antica. Tra l’altro non abbiamo indicazioni di metronomo nella musica di Brahms, credo ce ne siano solo alcune nel Requiem tedesco e nel Concerto per violino: il nostro compito è di cercare di capire quale sia il senso della sua musica, il tempo esatto da staccare.

– Le sinfonie saranno registrate su DVD? –
Sì, registreremo tutte le sinfonie in formato video, oltre che naturalmente audio. Saranno registrazioni dal vivo. È senza dubbio un rischio per me, perché faremo un solo concerto. Certo, avremo la possibilità di fare qualche piccolo aggiustamento, ma la registrazione avverrà in un’unica serata per ogni sinfonia, quindi dovremo preparare tutto con molta cura durante le prove. Devo dire che i musicisti dell’OSI conoscono le partiture molto bene, perché suonano Brahms praticamente in ogni stagione, però in questo caso avremo un approccio diverso: sarà come osservare un dipinto di Leonardo da Vinci o di Michelangelo dopo un restauro. C’è bisogno di soffiare via la polvere dalla superficie e di guadare alle sinfonie da un nuovo punto di vista.

– Altri progetti, oltre a questo? –
Adesso c’è il ciclo delle sinfonie di Beethoven con Ashkenazy e poi, naturalmente, stiamo già lavorando sui programmi delle prossime stagioni. Abbiamo molte idee: il LAC è un luogo speciale, in cui convivono più realtà, è una sorta di «melting pot», con grandi potenzialità. Mi piacerebbe, per esempio, collaborare con la compagnia di Daniele Finzi Pasca, che è la compagnia residente del LAC. Insieme a Michel Gagnon, direttore del LAC, ed Etienne Reymond, direttore di Lugano Musica, possiamo fare molto, perché questo luogo stimola la creatività.

– Oggi i direttori principali passano meno tempo che in passato con le loro orchestre, perché viaggiano continuamente in tutto il mondo… –
E in tutto il mondo accadano quasi le stesse cose! È questo il punto. Ci sono ovunque ci sono gli stessi direttori e lo stesso repertorio. Io vorrei nuove idee, nuove abitudini. Insomma il mio sogno è di costruire una nuova tradizione, per Lugano.

– Quindi un direttore dovrebbe lavorare soprattutto con la sua orchestra, piuttosto che viaggiare… –
Dice bene. È un’osservazione molto importante. Un direttore deve lavorare.

– Invece i direttori, a volte, arrivano in aeroporto e due ore dopo sono sul palcoscenico per il concerto, senza provare. Questa è routine e si avverte… –
Assolutamente. E come potrebbe essere diversamente? Se un direttore ripropone i soliti cinque brani a Berlino, Parigi, Milano, Tokyo, il risultato è che ci troviamo di fronte sempre alle stesse idee, allo stesso approccio. Puoi farlo, naturalmente, e per il pubblico è piacevole, perché è sempre una bella esperienza ascoltare grandi direttori con grandi orchestre. A volte, però, può rivelarsi noioso. Bisogna andare avanti, sviluppare nuove idee. Viviamo in un mondo molto complesso e penso che sia necessario non dico trovare delle risposte, cosa praticamente impossibile, ma almeno porsi le giuste domande.
Sento che uno dei problemi più grandi oggi è il nostro rapporto con il tempo. Non abbiamo mai tempo, nessuno ha mai tempo. Le arti, invece, hanno bisogno di tempo. Un quadro come Mona Lisa non è fatto per una rapida occhiata, ha bisogno di ore ed ore per essere compreso. Una sinfonia di Beethoven, un quartetto di Anton Webern non sono fatti per un ascolto superficiale. Ci vuole del tempo per entrare nel cosmo di un brano. È necessario ascoltarlo una volta, due volte, tre, dieci, cento volte per comprenderlo.

– Il pubblico, però, ha tempo? Il pubblico vuole soprattutto ascoltare le grandi star, ma lo star system può essere pericoloso… –
Lo star system è la superficie, è un business. Pago 100 franchi per una star e conosco in anticipo quello che accadrà, mi sento sicuro, perché non ci sono rischi, non ci saranno sorprese al momento del concerto. Cerco un momento di relax, senza complicazioni, senza coinvolgimenti emotivi. La musica deve rilassarmi. Ma la musica è proprio l’opposto. La musica ci scuote, ci impedisce di dormire. Pensi alla Traviata: non è fatta per rilassarsi! Ha delle bellissime melodie, ma la bellezza è solo un lato della musica: l’altro è l’inferno, e nella loro unione consiste la verità della musica.

– È quello che ha scritto Tolstoj nel racconto La Sonata a Kreutzer: la musica è pericolosa… –
Certo, è pericolosa, come la vita. Il mio sogno è di aprire un poco la porta, anche solo per un piccola parte dell’uditorio, verso questo mondo sotterraneo, oltre la superficie delle note. Ed in questo senso le sinfonie di Brahms sono davvero un universo. Sono la vita.

Luca Segalla